Il primo giorno di lavoro - Capitolo 2

Secondo capitolo delle avventure del nostro pavido scrivano, in cui si scoprirà qualcosa di più del mondo in cui vive Abram, si conoscerà la sua austera madre, e inizia a presentarsi il mistero che ci accompagnerà nelle sue avventure (se trovo tempo per scriverle, ma ci sono abbastanza capitoli e le vacanze sono vicine ;) ). Quindi senza indugio scoprite chi sono le divinità dei nostri maiali antropomorfi.

Il giorno dopo Abram si svegliò di buona voglia e fece colazione, i suoi cugini a tavola avevano gli evidenti segni di un dopo sbronza terribile. La zia raccontò che avevano passato la notte a vomitare anche l’anima e, senza nascondere una punta di malinconia, ricordò quando lo faceva il suo povero marito. Dopo colazione, Abram si fiondò verso la porta, portando con se la borsa da scrivano che la madre gli aveva regalato per la sua iniziazione. All’interno c’erano pennini, calamai, fogli sciolti e blocchi di fogli rilegati e quadrettati, un panino al formaggio e, rinchiuso in una scatolina di ferro, il canto segreto. Ma appena fu sulla porta, lo raggiunse la madre, la quale con sguardo torvo lo squadrò da capo a piedi, poi levò gli occhi al cielo, e disse:
- Spero per te che quella di ieri sia stata la tua prima e ultima volta in una tale bettola.
- Si madre – rispose Abram in tono sommesso.
- Bene, ci bastano i tuoi cugini a darci pensiero, farai tardi?
- Madre devo vedermi con un mio maestro alla gilda, per una questione riservata, e poi devo iniziare a farmi dei clienti.
- Spero che siano persone dabbene e rispettose, e che non prendi i primi bottegai che trovi come clienti. Inoltre spero che frequenteranno il meno possibile casa nostra. C’è già troppo disordine con voi tre, non vorrei avere gente che va e viene in continuazione.
- Si madre, ve lo prometto. Appena potrò affitterò uno studio, e riceverò lì la mia clientela.
- Bene figliolo. Ah, mi raccomando, nel pomeriggio verrà a trovarmi una mia cara amica vorrei che tu fossi presente, quindi non tardare.
- No madre, se riesco a fare tutto sarò qui per il pranzo.
- Eccellente, come al solito sarà a mezzodì, buona giornata Abram.
- Buona giornata madre – e finalmente uscì.
Attraversò la città ancora mezza assonnata, vide il carretto dei netturbini fare il suo giro, e l’addetto alle lampade spegnere le ultime rimaste con il lungo bastone che serviva a smorzarle. Le carrozze erano poche, anche se Varsavie era un piccolo borgo c’erano sempre almeno una ventina di carrozze che andavano avanti e indietro, ora c’è n’erano al massimo due. Le poche persone che incontravano o stavano rincasando, o, come lui, erano uscite di buon ora. Attraverso la strada principale, passo di fronte al tempio, dove fece un mezzo inchino in segno di devozione, e poi andò dritto fino alla sua meta. La casa della gilda degli scrivani era grande quanto il tempio, e altrettanto imponente, sulla faccia lunghe colonne, alte venti metri sorreggevano il tetto triangolare, sul cui frontone erano scolpite statue di persone nell’atto di scrivere e di fare di conto, mentre intorno a loro si svolgeva una specie di battaglia. Quella era la loro missione, mentre la storia si svolge intorno a te, tu registrala e tienine conto con la tua penna e la tua carta, la missione dello scrivano. Quand’era piccolo questa cosa gli era sembrata la più stupida del mondo, ora era diventata la sua ragione di vita. Sali le scale della gilda ed entrò nell’ampio portone, ma qui fu fermato da un grosso portiere in divisa nera, che gli chiese dove andasse.
- Geremia, non mi riconosci, sono io Abram.
- Mi dispiace – fece il portiere – non posso farvi entrare. Finché eravate un apprendista avevate una dispensa speciale, ora solo i veri scrivani possono entrare. E voi non mi avete ancora dimostrato di esserlo.
- Mah … - Abram capì che quella era la prima prova della sua nuova vita, cosi si fermo e iniziò a fissare Geremia – allora, cosa devo fare.
- Bene signore scrivano, da chi è mangiato il pescatore?
Il canto, di questo si trattava, il canto era necessario per accedere alla casa della gilda, per questo i giovani scrivani dovevano impararlo a memoria. Abram fece per aprire la sua valigia, ma Geremia lo bloccò con lo sguardo.
- Mi dispiace signore, non vi hanno forse detto di impararlo a memoria?
- Si, veramente - Abram si sforzò per ricordare il nome di quello strano animale, ecco forse perché quei nomi erano cosi strani, per dimostrare che lo avevano imparato a memoria – la zampane … no ecco le zanzare, il pescatore viene mangiato dalle zanzare.
- Bene signor scrivano, si accomodi – Geremia si sposto di lato e lo invitò ad entrare.
- Grazie – Abram finalmente varcò la soglia – dove il maestro Moses? Dovrei parlargli.
- Maestro Moses é nella sala azzurra, sta traducendo dei versi da un testo antichissimo, sicuro di volerlo disturbare?
- Devo farlo per forza, devo chiedergli delle cose che riguardano il canto.
- Capisco, allora vada.
Abram si inoltro negli scuri corridoi della casa della gilda, per esporre le grandi sale alla luce del sole, le avevano costruite lungo i muri e all’interno i corridoi erano quasi bui. La sala azzurra era una delle sale più luminose, esposta com’era a mezzogiorno, e li il maestro Moses passava gran parte del suo tempo. Era il luogo dove si conservavano i testi più antichi, il tesoro degli storici della gilda, almeno li a Varsavie. Ma ormai di storici a Varsavie ce n’erano solo due, di cui uno era il maestro Moses. Quando Abram entrò, il maestro Moses ebbe quasi un sussulto, anni prima aveva cercato di far diventare Abram uno storico, ma l’ostilità della madre del ragazzo verso la sua scienza lo aveva costretto a desistere. Cosi ora era una piccola vittoria per lui vederlo li, nel suo sancta sanctorum. Dal canto suo Abram era rimasto in buoni apporti col vecchio maestro, anche se il suo interesse per la storia era minimo rispetto alle formule matematiche e alle possibilità della contabilità pura. Una volta dentro, Abram salutò con deferenza l’anziano mentore, e questi lo invitò a sedersi vicino a lui.
- Mio caro Abram, anzi scusa, mastro Abram.
- Voi mi confondete maestro, io per voi sono e sarò sempre Abram.
- Qual buon vento ti porta qui Abram, se non sbaglio hai ricevuto da poco il canto.
- Appena ieri maestro Moses, e proprio di questo vorrei parlarvi. Ci sono delle cose che non capisco.
- Immagino, lo sapevo che prima o poi uno di voi sarebbe venuto qui da me. Allora, dimmi, cosa c’è di tanto oscuro nel canto?
- Be ecco – Abram era titubante, per tutta la vita gli avevano insegnato che il canto era una cosa preziosa, e ora aveva quasi paura a nominarlo – maestro io…
- Non avere paura, dimmi pure del canto, io lo conosco a menadito.
- Va bene allora, maestro perché il vasaio è sporco come una patata? Non capisco, secondo le regole armoniche l’allegoria andava fatta con un animale.
- E infatti cosi era prima.
- Prima di cosa.
- Della correzione, prima li c’era il nome di un animale, mio caro Abram, poi, siccome quell’animale si poteva offendere lo hanno cambiato con una patata.
- Un animale? Un animale che si offende? Quale animale si può offendere? Mica parlano, o ragionano.
- Mastro Abram, io sto per dirti un segreto degli storici, e te lo dico solo perché mi fido di te e del tuo buon senso. Anche se ogni storico può venire a conoscenza di questo segreto, sciocco in verità. Però partiamo dalla tua iniziazione…
- Cosa?
- Dalla cerimonia della tua iniziazione, come cominciava te lo ricordi.
- Oh si, allora: E Atena creò l’umano, e questo era giusto, e l’umano giacque sulla terra e la popolò…
Senti, non mi dire tutta la storia, parti dalla parte degli Iam.
- Si, allora – Abram si schiari la voce – E l’umano vide la sciagura e cercò di salvarsi, e prego Atena di dargli un aiuto, e Atena mando gli Iam fra gli uomini, gli Iam videro la Terra e la guairono, poi presero i semi della terra e li gettarono nel cosmo.
Perfetto, ora, cosa significa questo?
- Che questa specie di divinità ha creato le razze che popolano l’universo.
- Più o meno, ora continua, ti va?
E i semi volarono nel cosmo, e germogliarono sui mondi, due semi caddero sul nostro mondo e germogliarono: i suinidi e i belanti.
Proprio bravo, hai imparato il salmo alla perfezione, ora noi siamo i suinidi, ma comunemente ci chiamiamo maiali, i nostri figli sono i lattonzoli e i verri, noi siamo parte di quei semi che gli Iam hanno “lanciato nel cosmo” capisci?
- Veramente no maestro, cioè io lo so che sono un maiale, ho le orecchie a punta, il mio naso schiacciato, le setole e la coda, so bene cosa sono.
- Però dici di essere un uomo?
- Be si.
- I veri uomini, i primi uomini erano gli umani, noi usiamo questo termine perché ci piace di più, o almeno lo usa il tuo ceto, gli strati più bassi della popolazione i mercanti, i bottegai, i contadini loro si chiamano ancora veri maiali, porci, porcelli, ma in fondo di questo si tratta, noi siamo maiali, e il maiale anticamente era un animale a quattro zampe, viveva nel fango e nella sporcizia, razzolava, grugniva, grufolava e, soprattutto, puzzava.
- Un quadro poco idilliaco dei nostri antenati suini, quindi sul canto….
- Quindi sul canto in origine c’era scritto: Il vasaio intristisce nel fango; la terra lo sporca più di un maiale.
Questo vuol dire che noi maiali eravamo degli animali sporchi, tanto da essere un l’allegoria del sudiciume.
- Esatto, e caro mio, è proprio cosi!
- Ma, allora, come mai ora io e lei siamo qui a discutere di questa cosa, cioè ci siamo evoluti e abbiamo preteso il nostro mondo no?
- No, proprio no. Se dobbiamo dar credito all’iniziazione noi e i belanti siamo arrivati su questo mondo perché gli Iam ci hanno portato qui, ma per quale motivo? E perché poi sono scomparsi, andati via.,perché? Ad Odessa ho trovato delle antiche pergamene in cui erano scritte leggende riguardanti gli Iam, li si diceva che gli Iam hanno dei vascelli che attraversano il cosmo, e viaggiano di mondo in mondo. E spesso, come nel caso di Horus (il nostro pianeta), lo popolano, e mettono dei guardiani a sorvegliare lo svolgersi della vita su quel mondo. Nel nostro caso lo hanno popolato con noi e con i belanti, ma lo scopo? Non saprei. Curiosità? Progresso scientifico? Delirio di onnipotenza? Chi può dirlo. So solo una cosa, noi prima eravamo degli animali erbivori, tranquilli e pacifici. Poi gli Iam ci hanno rifatto a loro immagine e somiglianza, cosi ora beviamo, fornichiamo, rubiamo, facciamo leggi per poi infrangerle, e, peggio di tutte uccidiamo il nostro simile. Atena ci aveva reso buoni e miti, ma gli Iam ci hanno levato l’innocenza.
- Siete duro con loro, se non era per gli Iam ora io e lei saremo in qualche cortile a mangiare avanzi e a gettarci nel fango.
- Allora non mi capisci, quella vita fatta solo di mangiare, bere e accoppiarsi era semplice e innocente, gli Iam ci hanno fatto capire cos’è il bene e cos’è il male, e noi ora non siamo più innocenti. Secondo te un rodiratto è buono o cattivo?
- Mah, veramente un rodiratto è cattivo, sono sporchi, vivono nelle fogne, mi fanno anche un po' schifo.
- E se ne vedi uno che fai?
- Lo cacciò via, magari cerco di ucciderlo.
- Allora il cattivo sei tu, lui in fondo che fa cerca solo cibo e calore. Ahimè, prima di noi suinidi questo mondo era dei rodiratti, dei saltarupe, dei grassi rododonti e di tanti altri animali, noi glielo abbiamo portato via. Vedi, noi qui siamo gli alieni. E il rodiratto che viene in casa tua o in casa mia vuole solo queste piccole cose, come noi un tempo volevamo solo grufolare e oziare. Non cerca di distruggerti, o di ucciderti, non sa neanche cosa vuol dire, magari può provare a difendersi, ma lo fa solo perché tu vuoi ucciderlo.
- Capisco, quindi conoscendo il bene e il male noi non siamo più innocenti.
- No, perché abbiamo la libertà di scegliere, e avendola noi non siamo più innocenti
- E cosa siamo?
- Non lo so, questo proprio non lo so.
- Maestro, e cosa sono gli altri animali che nomina il canto? Le zanzare e i coccodrilli.
- Chi lo sa? Forse sono creature come noi, esseri che una volta erano animali e che ora popolano qualche mondo lontano.
Abram usci dalla casa della gilda molto più lentamente e molto più confuso di come era entrato, il discorso col maestro gli aveva aperto un infinità di possibilità a cui non aveva mai pensato, in effetti non si era mai chiesto da dove venissero i suinidi, sapeva solo ciò che diceva la religione: che gli Iam li avevano creati e portati li. Certo, dire una cosa diversa, magari che gli Iam non erano divinità era un eresia, ma credendo solo nei numeri e nelle cifre ad Abram mancava una vera e profonda fede religiosa, specie dopo quello che gli aveva detto Moses. Uscendo si era fatto dare un libro di storia di Moses, l’avrebbe letto appena avrebbe avuto un po’ di tempo, era chiaro che le sue conoscenze storiche erano molto labili, ed era meglio approfondirle. Raggiunse di nuovo il tempio, e stavolta accennò appena ad un inchino, poi di scatto salì le scale ed entrò dentro come un proiettile. Il tempio era grande e opulento, con le sue file di banchi lungo tutta la navate, e con il bianco altare in fondo. Nelle nicchie ai lati c’erano i vari martiri della religione, pii uomini e donne, o meglio pii maiali e scrofe che avevano dedicato la loro vita alla religione, e che venivano ricordati cosi. In fondo al tempio c’era l’altare maggiore, e dietro la statua di Atena, una stupenda scrofa ammantata di vesti classiche, con la lancia e lo scudo nella destra, e con la sinistra alzata col palmo aperto, e cinque Iam al suo interno. Sebbene la religione diceva che gli Iam non erano solo cinque, ma un infinità, questa era la rappresentazione classica della Dea. All’improvviso un rumore richiamo l’attenzione di Abram, si girò e vide un vecchio sacerdote vestito di verde, dirigersi verso di lui.
- Figliolo come mai sei qui, non è ancora il momento della funzione.
- Mi scusi padre, è che io, be io volevo … volevo delle spiegazioni.
- Se sono di carattere teologico, perché no. – il vecchio si sedette sulla panca di fronte all’altare e invitò Abram a raggiungerlo – dimmi.
- Padre – Abram si era accomodato vicino a lui e lo guardava dritto negli occhi – padre, mi dica gli Iam sono divinità o suini come noi.
- Figlio mio, ne l’uno e nell’altro, gli Iam sono a meta strada fra questo mondo e l’altro, sono gli intermediari fra noi e Atena.
- E sono buoni o cattivi.
- Ma sono buoni, ci proteggono, ci hanno dato questo mondo, e anche se ne facciamo un cattivo uso non ci dicono nulla. Ci amano, e noi li dobbiamo amare e servire. Io lo faccio come semplice sacerdote, officiando le cerimonie, tu puoi farlo magari con opere pie e devote. Ma dimmi figliolo, tu sei uno scrivano?
- Si, uno scrivano contabile.
- Capisco, non sei uno storico vero? Sai, di solito sono gli storici a venire a pormi domande del genere.
- No, volevo solo capire. Padre, volevo chiederle, cos'è un coccodrillo?
- Un coccodrillo? Non saprei figliolo, proprio non saprei.
- Grazie.
Abram si alzò ed usci dalla chiesa, ormai l’impeto che l’aveva spinto ad entrare era del tutto svanito alla vista della quiete e della grandezza del posto, prima di uscire si girò e fece l'ennesimo mezzo inchino verso l’altare, infine si ritrovò di nuovo sulla strada di casa più confuso che mai. Mostri, alieni, divinità, cos’erano questi Iam, perché avevano fatto tutto questo, e che cosa avrebbero fatto in futuro? I pensieri gli si accalcarono uno dietro l’altro, finché non sbattette col muso contro quello che credeva fosse un muro, indietreggiò e vide che era Isaia.
- Mastro Abram, che fortuna incontrarvi, vengo ora dalla vostra casa.
- Fantastico – Abram sudò freddo al pensiero della madre al suo ritorno - Come mai siete andato li?
- Volevo fissare un appuntamento per iniziare il lavoro, e visto che non c’eravate ho lasciato detto alla vostra signora madre.
- Ah si, va bene mastro Isaia, sentite andiamo alla locanda, vorrei chiedervi qualcosa.
I due amici si incamminarono di buon passo verso la locanda di Isaia, e una volta lì Abram si mise al lavoro. Si fece consegnare tutti i conti dell’oste, le ricevute pagate e da pagare della birra, e tutto quello che poteva servirgli, lavorando di buona lena per almeno un paio d’ore scrivendo e trascrivendo tutto il necessario a regolare la contabilità della mescita. Alla fine si stiracchiò sulla sedia di legno, facendo scricchiolare le sue giunture. Isaia si avvicino al suo tavolo con una brocca contenente un liquido ambrato, ne versò due bicchieri e si sedette di fronte a lui.
- Allora, come andiamo – chiese – un vero disastro eh?
- No, anzi, siete molto scrupoloso nell'annotare il più piccolo dettaglio, complimenti, ci sono pochi uomini cioè maiali cosi sistemati.
- Incredibile, due giorni che mi frequentate e già parlate in volgare, attento mastro Abram non vorrei che vi rovinaste la vostra bella parlata forbita.
- Non preoccupatevi, chiamo solo le cose come debbono essere chiamate. Ma ditemi una cosa mastro Isaia, qui da voi vengono molte persone nevvero?
- Caspita, c’è sempre un andirivieni tutte le sere, grazie ad Atena...
- E agli Iam … e avete mai sentito parlare di un coccodrillo?
- Che cosa, come conoscete questa parola?
- La conosco, e voi?
Isaia non rispose, si alzò e raggiunse la porta della cucina della locanda, entrò e ne uscì subito dopo portando con se un fagotto, prima di tornare al tavolo sprangò la porta della locanda e poi si sedette di nuovo di fronte ad Abram. Posò il fagotto sul tavolo, e lo scopri, rivelando la cosa più strana che Abram avesse mai visto: una mano simile alle loro ma ricoperte di scaglie verdi con delle unghie appuntite. Isaia lo fisso in volto e disse.
- Questa è una delle loro mani.
- Una loro mano? – Abram fissò allibito la strana reliquia, in effetti sembrava la mano di un maiale, ma anche del tutto aliena. Gli tornò in mente quello che aveva detto Moses, e cioè che i coccodrilli erano anche loro degli animali trasformati in uomini dagli Iam – come mai l’avete voi?
- Veramente non dovrei dirvelo, ma voi mi ispirate fiducia, solo giuratemi che questo sarà un nostro segreto.
- Perché, cosa c’è di cosi strano in questa mano di coccodrillo.
- Solo il vederla ci può costare la vita, avete mai sentito parlare dei giudici oscuri?
- Il tribunale segreto del re? Si ma pensavo che fosse una leggenda.
- Oh no, e la persona che mi ha consegnato questa cosa è scomparsa proprio a causa loro, e io non ho nessuna intenzione di fare la stessa fine.
- Capisco, e sia … ve lo giuro sul canto segreto degli scrivani, vi basta?
- Mi basta … allora …

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